Inside out e le isole della personalità

Questo post è stato pubblicato su Huffington Post a Novembre 2015

Fonte: http://www.huffingtonpost.it/sergio-stagnitta/inside-out-nella-mente-di-uno-psicologo_b_8461068.html

Immaginate, per un momento, di essere in un parco di una piccola cittadina, in autunno, seduti in una panchina mentre osservate con piacere ed interesse l’interazione tra una mamma e un bambino piccolo, di 10 mesi circa. Stanno giocando distesi su di un prato pieno di foglie appena cadute giù da qualche albero. Il bambino ha in mano un pupazzetto di stoffa e lo avvicina al viso della madre, il pupazzetto gli sfugge di mano e la mamma decide di non raccoglierlo, allora il bambino si allunga per prenderlo, ma non ci arriva subito, si forza allungando al massimo le braccia e le dita. Non riuscendoci si spinge in avanti con tutto il corpo per coprire la breve distanza che lo separa dal giocattolo. In quel momento la madre dice “uuuuh! uuuuh!” in un crescendo dello sforzo vocale e respiratorio che va di pari passo con l’accelerazione dello sforzo fisico del bambino. Questa interazione è quella che lo psicoanalista svizzero Daniel Stern ha definito “sintonizzazione degli affetti”. La madre non tenta di imitare lo sforzo del bambino che prova a prendere il pupazzo ma si sintonizza con il suo sforzo e dà voce a quel vissuto. Questo tipo di interazione è esattamente quello che avviene in un lavoro psicoterapeutico. Prima ancora di capire il problema della persona, di interpretare, di aiutare, sostenere e via dicendo, il terapeuta prova a sintonizzarsi con i vissuti interni della persona che chiede aiuto, con le sue emozioni, dandogli voce, letteralmente tirandole fuori. Del resto il termine “emozione” proviene da “emovère” (ex= fuori + movere= muovere) letteralmente “portare fuori”, “smuovere”, in senso più lato, “scuotere”, “agitare”.

Spesso noi proviamo delle emozioni e non riusciamo a riconoscerle pienamente o perché particolarmente intense o, al contrario, perché troppo deboli, in questi casi abbiamo bisogno di una persona che ci aiuti a comprendere, insieme, cosa stiamo vivendo. Questo aspetto è presente nell’ultimo cartone della Pixar, ormai campione di incassi 2015, Inside Out, che come sapete racconta il mondo interno di una bambina di 11 anni che si trova nella difficile situazione di dover spostarsi con la propria famiglia in un’altra città, molto distante dai luoghi in cui è nata e cresciuta. Nel cartone viene descritta, in modo molto efficace e veritiero, come vive Riley dal punto di vista emotivo questa situazione di disagio. Molti hanno sostenuto, a ragione, che questo cartone è l’elogio della tristezza, nel senso che è proprio grazie alla tristezza che alla fine Riley riesce ad affrontare e superare il momento di crisi che anche una crisi evolutiva (non solo relativa al cambio di città), dovuta al passaggio dall’infanzia alla pre-adolescenza (pubertà). A mio avviso però il cartone è anche l’elogio della relazione, si capisce chiaramente che Riley riesce ad affrontare la crisi perché si ricorda che in un momento di grande difficoltà dell’infanzia, relativo ad un fallimento sportivo, i suoi genitori erano sintonizzati affettivamente, attraverso l’abbraccio e la consolazione, con lei. E questo le apre anche il ricordo successivo dell’abbraccio dei suoi amici.

Nella terapia, avviene qualcosa di molto simile. Il terapeuta si sintonizza con il disagio della persona, con le sue emozioni, assorbendole e restituendole attenuate, più morbide, delicate. La mente del terapeuta è aperta verso l’altro non solo attraverso le parole – e in generale attraverso gli aspetti cognitivi della loro comunicazione – ma, prima e soprattutto, verso ciò che passa a livello emotivo, in un dialogo silente che assomiglia molto alla relazione della mamma con il bambino che ho descritto all’inizio. Questo processo lentamente si sposta poi su di un piano più razionale, cognitivo, fino a diventare consapevolezza e quindi conoscenza di sé, dei propri disagi attuali e della propria storia personale. Ogni incontro terapeutico, in genere, dovrebbe muoversi attraverso questa sequenza, prima entrare in contatto con i vissuti emotivi e poi spostarsi, lentamente, verso il livello cognitivo, di maggiore consapevolezza.

La psicologia che sta dietro il cartone Inside Out ci dice non solo che le emozioni sono importanti e non, come si credeva un tempo, da tenere sotto controllo, pericolosi agenti di disturbo per il pensiero razionale, ma che noi siamo esseri relazionali, entriamo in contatto con l’altro fin dal concepimento, ci connettiamo, per utilizzare un termine moderno, e grazie a queste relazioni possiamo permetterci di esplorare il nostro mondo interno, le nostre fantasie, la nostra storia e immaginare e progettare il nostro futuro.

Il padre tra autorità e libertà

Qualche tempo fa ho letto questa frase di Slavoj Žižek che sviluppa un concetto di Lacan, sul tema del rapporto tra LIBERTÀ e LEGGE in relazione all’autorità paterna. Un tema interessante che ovviamente può essere letto da tanti punti di vista differenti. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.

Scrive Žižek: “Anziché portare libertà, la caduta dell’autorità paterna opprimente solleva nuovi e più severi divieti. Come possiamo reder conto di questo paradosso? Si pensi alla situazione nota alla maggior parte di noi dalla giovinezza, quella, cioè, dello sventurato bambino che, la domenica pomeriggio, anziché avere il permesso di giocare con gli amici, deve andare a trovare la nonna. Il messaggio del padre autoritario d’altri tempi al ragazzino riluttante sarebbe stato: “Non m’importa come la pensi. Fai il tuo dovere e basta: vai dalla nonna e quando sarai lì comportati bene!

In questo caso, la situazione del bambino non è affatto malvagia: benché costretto a fare qualcosa che chiaramente non vuole, serberà la sua libertà interiore e dunque la possibilità di ribellarsi (più avanti) all’autorità paterna.

Ben più insidioso sarebbe stato il messaggio di un padre “post moderno” non autoritario: “Sai quanto la nonna ti voglia bene! Comunque, non voglio forzarti ad andarla a trovare. Vai da lei solo se davvero lo vuoi!” Ogni bambino che non sia stupido (cioè la maggior parte dei bambini) riconoscerà immediatamente la trappola di questo atteggiamento permissivo: sotto l’apparenza della libertà scelta si trova una richiesta ancora più opprimente di quella formulata dal tradizionale padre autoritario, vale a dire l’imposizione non solo di andare a trovare la nonna, ma di farlo volontariamente, seppur al di fuori del libero arbitrio del bambino.

Questa fasulla libera scelta è l’oscena imposizione del Super-io: essa arriva a privare il bambino anche della sua libertà interiore, impartendogli ordini non solo sul da farsi, ma anche su quello che si deve voler fare.” (Žižek, 2006, Leggere Lacan. Bollati Boringhieri, Torino).

Voi che ne pensate? A mio avviso è un ottimo spunto di riflessione, un punto di partenza per sviluppare una riflessione importante sul ruolo della figura paterna, del post moderno e della “società liquida” di cui parla Bauman.

Segnalo alle persone di Roma e dintorni interessate al tema della figura paterna che sabato 18 Aprile dalle ore 16,00  condurrò un laboratorio esperienziale di cinema e psicologi dal titolo: “Il desiderio del padre”, la sede è il Bar à Book un locale di San Lorenzo (Roma). Trovate tutte le informazioni e il modulo di iscrizione all’indirizzo: http://www.cinemaepsicologia.it/laboratorio-psicologia-padre/

Psicologia del testimone silenzioso

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In questo post vorrei descrivere, ovviamente dal punto di vista psicologico, la necessità, nella nostra vita, della presenza di un testimone senza il quale le nostre esperienze non avrebbero senso o, peggio, non avrebbero limiti.

“Inizio con una barzelletta raccontata nel testo di Žižek:

Un povero contadino scampato a un naufragio si ritrova solo su un’isola deserta insieme a Cindy Crawford. Quando, dopo aver fatto sesso con il contadino, lei gli chiede come sia stato, lui risponde che è stato fantastico, ma che, per potersi dire completamente soddisfatto, ha ancora una piccola richiesta da farle: potrebbe vestirsi come il suo migliore amico, indossare un paio di pantaloni e dipingersi dei baffi sul viso? La rassicura: non è segretamente un pervertito, ma del resto sarà lei stessa a poterlo verificare una volta assecondata la richiesta. Quando infine lei cede, lui le si avvicina, le assesta un colpetto nelle costole e le annuncia con la malizia della complicità virile: “sai cosa mi è successo? Ho appena fatto sesso con Cindy Crawford!

Questo terzo, sempre presente quale testimone, smentisce la possibilità di un piacere privato intatto e innocente.” (Slavoj Žižek (Leggere Lacan, Bollati Boringhieri, Torino, 2006).

Il tema è talmente importante che toccherebbe iniziare con una sfilza di citazioni tra le più quotate nel campo psicoanalitico, letterario e filosofico circa la presenza del terzo, ma proprio per lo stile che caratterizza questo blog ne farò a meno e proverò a descrivere questo concetto con le mie parole e le mie storie.

Credo che sarà capitato a tutti noi di avere, ad esempio, un diverbio con un amico e poi, quando lui va via, pensare che magari lo racconterà alla moglie quando rientrerà a casa e magari insieme ci giudicheranno. È una questione irrazionale, eppure spesso è così. Magari se l’amico in questione vivesse da solo, l’idea che rientrerà a casa dopo il nostro diverbio prenderebbe un’altra direzione, in quest’ultimo caso pottemmo provare un senso di colpa per averlo ferito e lasciato solo. Dicevo, è irrazionale perché osservando la cosa da un punto di vista, diciamo obiettivo, la presenza o meno del terzo non dovrebbe incidere sulla nostra discussione.

Pensiamo ad un’altra situazione che richiama proprio il titolo di questo post, ovvero della presenza di un testimone. Quando noi facciamo un’azione illecita (anche semplicemente buttare una carta a terra) a volte quello che ci preoccupa maggiormente non è il nostro “senso morale” che ci dice che non avremmo dovuta farla, ma il timore di essere scoperti a causa di un testimone, magari, non visibile, che potrebbe giudicarci e/o peggio denunciaci. A volte questo testimone esiste veramente, altre volte lo fantastichiamo noi, ma sempre è presente nella nostra mente, ed ha appunto la funzione di limitare le nostre azioni scorrette o, viceversa, essere un complice compiaciuto delle nostre azioni corrette o piacevoli (come nel caso della barzelletta).

Ma chi è questo testimone delle mie azioni che di volta in volta può assumere le sembianze di un capo, della migliora amica, del genitore, insegnante, di un estraneo qualunque è così via?

Lacan chiamava questo il Grande Altro e rappresenterebbe l’Ordine costituito, il Potere, il Sistema, ossia la struttura simbolica che definisce l’uomo in quanto animale culturale.

Questo “Grande Altro” è ben rappresentato nello straordinario “Decalogo” di Krzysztof Kieślowski, nel quale è presente la figura del testimone silenzioso.

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Il testimone nel film Il “Decalogo”

“Ogni episodio del Decalogo ha un cast differente, ma in tutti, con l’eccezione degli episodi 7 e 10, è presente la figura del “testimone silenzioso“, un personaggio che non parla mai, ma che assiste muto allo svolgimento delle vicende. Forse l’occhio di Dio? Forse la personificazione della coscienza? Forse un angelo? Il regista non ha mai rivelato il suo significato, né al pubblico, né all’attore stesso.” [fonte: Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Decalogo_%28film%29].

Vi ritrovate con questa spiegazione? Se sì, potete anche raccontare qualche vostra esperienza nei commenti.

Cos’è il desiderio in psicoanalisi?

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“Il 2000, centesimo anniversario dalla pubblicazione de L’Interpretazione dei sogni di Freud, fu accompagnato da una nuova ondata di proclami trionfalistici sulla morte della psicoanalisi: con i recenti progressi nelle scienze del cervello, essa è stata sepolta, insieme ai confessori religiosi e agli interpreti di sogni, nello sgabuzzino dell’oscurantista, prescientifica ricerca di significati nascosti al quale da sempre apparteneva. […] Eppure il funerale potrebbe essere prematuro, celebrato per un paziente che ancora ha una lunga vita davanti. In contrasto con le verità “evidenti” abbracciate dai detrattori di Freud, il mio obiettivo consiste nel dimostrare che il tempo della psicoanalisi è giunto solo adesso.” (Slavoj Žižek, 2006).

Ho iniziato questo post con la frase di Žižek perché concordo pienamente con essa, anch’io penso che è questo, più che mai, il tempo della psicoanalisi, e lo penso soprattutto perché da sempre essa si è occupata, e si occupa, di uno degli aspetti più profondi e affascinati, e soprattutto mai così attuale, dell’animo umano: il desiderio. Fin dalle origini la psicoanalisi è stata la “scienza” del desiderio e di ciò che lo contrasta, o, come scrive Recalcati: “Desiderio è e resta la parola chiave, la parola elettiva, della psicoanalisi.”

Ogni tanto viene fuori qualche articolo che ci dice che è stata scoperta la “particella” del desiderio oppure che finalmente hanno capito dove risiede il desiderio nel cervello, quale cibo e quali indumenti indossare per attivarlo e così via. Tutta roba che alla fine non aggiunge nulla alla nostra vita, e questo è vero soprattutto per il desiderio, perché esso non risiede in un luogo, potrei dire al contrario che risiede in un vuoto.

A questo punto allora tocca provare a chiarirci un po’ meglio le idee. Ma che cos’è il desiderio dal punto di vista psicoanalitico? Parto con la sua etimologia. Il termine desiderio deriva dalla composizione della particella privativa “de” con il termine latino sidus, sideris (plurale sidera), che significa stella. Dunque “desidera”, da cui “desiderio”, significherebbe, letteralmente, “condizione in cui sono assenti le stelle“. Sembra infatti che il termine abbia avuto origine dal linguaggio degli antichi aruspici che, trovando il cielo coperto dalle nuvole, non erano in grado di compiere le loro funzioni divinatorie, non potendo vedere le stelle, dalla cui osservazione traevano le loro profezie. In questi particolari momenti di assenza del cielo stellato, si accendeva dunque negli aruspici un desiderio profondo delle stelle, che proseguiva sino al loro nuovo apparire.

L’etimologia è importante perché ci dice che per desiderare è necessario avvertire una assenza, qualcosa che ci manca profondamente al punto da desiderarne la presenza. Per me questa è un’idea veramente affascinante, perché vuol dire che per desiderare dobbiamo svuotarci dalle mille cose di cui ci circondiamo ogni giorno e fare spazio a qualcosa che è sepolto, lì dentro di noi, e che fatica ad emergere.

Non dobbiamo confondere il desiderio con la motivazione o la volontà, il desiderio non è spinto dalla ragione, né, tantomeno, possiamo e dobbiamo accostare il desiderio al possesso. Ma, soprattutto, il desiderio non è autoreferenziale, narcisistico, al contrario, è fortemente relazionale, tende sempre verso l’altro.

Recalcati citando Lacan afferma: “L’esperienza del desiderio è un’esperienza di perdita di padronanza, di vertigine, di qualcosa che si dà a me stesso come  più forte della mia volontà. […] Il desiderio è l’esperienza di uno scivolamento, di un inciampo, di uno sbandamento, di una perdita di padronanza, di una caduta dell’Io. (M. Recalcati, p. 27, 2012.).

Per comprendere meglio ciò che sto dicendo provo a raccontare una storia, che, come sempre, è più efficace di mille teorie.

Nel film Interstellar di Christopher Nolan (quella che segue è una informazione semi Spoiler, ovvero non svelerò il finale del film, però ne racconterò alcuni aspetti, potete decidere se continuare oppure vedere il film e poi proseguire nella lettura…), il mondo si sta spegnendo molto velocemente, un vecchio scienziato invita un ex astronauta (Cooper) a partire per rintracciare alcuni astronauti che in precedenza erano partiti con la missione di trovare un nuovo mondo capace di ospitare l’umanità.

Cooper decide di partire lasciando sulla terra i suoi figli. Scopre, insieme ad alcuni compagni di viaggio, che esiste un pianeta che potrebbe essere colonizzato però, a seguito di diverse vicissitudini (che non racconto) non può rientrare sulla terra, almeno nel modo canonico di un ritorno con l’astronave.

A questo punto se Cooper non avesse lasciato sulla terra i suoi figli potrebbe benissimo decidere di non rischiare la vita e rimanere lassù. Potrebbe non essere mosso dall’idea, eroica, di salvare l’umanità. Ma lui “deve” rientrare perché percepisce un vuoto e quel vuoto sono i figli, in particolare la figlia (Murphy, chiamata così per l’omonima legge), che ha sofferto enormemente l’assenza del padre. In Cooper si accende il desiderio, vero, profondo, di ritrovare il contatto con l’altro. Per farlo perde la sua identità, la logica razionale ed entra in un “buco nero” un non luogo, disorientante grazie al quale può ricontattare la figlia.

Ecco, questo per me è una buona descrizione del desiderio.

Interessante anche il titolo del film che richiama, non so se volutamente, alla etimologia del termine desiderio di cui ho scritto prima.

Mi piacerebbe ricevere anche i vostri commenti su una esperienza di desiderio personale oppure immaginaria.

Testo citato nel post: Massimo Recalcati (2012), Ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Questa una clip fotografica del film: https://www.youtube.com/watch?v=PVDhTnr7rUs
Etimologia del termine desiderio: http://www.enciclopediadebioetica.com/index.php/todas-las-voces/166-desiderio