Intervista per il settimanale Gioia

I 50-60 anni rappresentano l’età in cui le due sessualità, maschile e femminile, si assomigliano di più.” (Sergio Stagnitta)

E’ uscito in edicola in questi giorni una mia intervista per il settimanale Gioia sulla sessualità over 50, l’intervista è curata dalla giornalista Paola Centomo. Per leggere l’articolo intero è possibile scaricare il file in formato .pdf.
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“Reactions” i nuovi pulsanti di Facebook che esprimono le emozioni

Mark Zuckerberg, a proposito dell’introduzione delle nuove Emoticons, in un suo post su Facebook, ha dichiarato che: “non sempre le persone vogliono condividere qualcosa di felice. A volte si vuole condividere qualcosa di triste o frustrante. La comunità Facebook ha chiesto più volte un pulsante “non mi piace” non tanto per esprimere antipatia verso i post degli amici, ma perché vuole esprimere empatia e farlo con una gamma più ampia di emozioni.”

Ecco come sono nati i nuovi “stati” che vengono chiamati Reactions, ovvero reazioni.”

Penso che la scelta di non inserire un “non mi piace” sia stata giusta. Immagino che il motivo prioritario sia legato al fatto che molti esperti di marketing ritengono che tale icona sui social avrebbe potuto inibire gli utenti, inducendoli a ridurre la pubblicazione di contenuti e renderli quindi meno attivi sui social.

Personalmente credo che a parte questa forma di timore, effettivamente realistica, il rischio era quello di polarizzare i sentimenti. Dopo aver letto un post saremmo stati costretti a due sole alternative (se non volevamo inserire un nostro commentare): buono o cattivo. Così invece ci sono diverse reazione che corrispondono, approssimativamente, alle emozioni primarie, che vorrei ricordare sono 7 (almeno per diversi autori). Più avanti vi dirò quali sono state escluse…

Nella prima parte del post vorrei descrivere i singoli pulsanti, immaginando quale potrebbe essere il loro reale utilizzo (l’uso più comune che si potrebbe fare di essi) alla luce anche delle relative emozioni che esprimono.

Nella seconda parte aggiungerò, invece, quello che considero un rischio nell’introduzione di questi nuovi “stati”, rischio importante al quale, a mio avviso, bisognerebbe fare molta attenzione. 

Leggi l’articolo intero suhttp://goo.gl/iDegCu

Il caso Rosboch e il dramma delle donne raggirate

Vi segnalo questa intervista che ho rilasciato per il Giornale Leggo, in relazione al terribile omicidio della professoressa Gloria Rosboch, del quale è accusato il suo ex allievo Gabriele De Filippi.

“Qualche anno fa mi è arrivata una richiesta di una donna di 48 anni, single, che aveva una relazione con un uomo sposato e con due figli. Mi racconta che, dopo poche settimane di frequentazione, durante una serata romantica passata insieme, piangendo le dice che è disperato, vuole lasciare la moglie però adesso non può perché non ha soldi. Ha un progetto in mente, quello di aprire un negozio di abbigliamento, ma non ha i soldi per avviare l’attività. Inizia quindi a chiedere dei soldi alla mia paziente, con la promessa di separarsi dalla moglie appena le sue finanze miglioreranno. E così, quasi settimanalmente, le chiede soldi per il suo nuovo progetto. Il “gioco”, la truffa, aveva sempre lo stesso schema: “se mi dai i soldi ci vediamo, facciamo l’amore e proseguiamo il progetto di vita comune, se non me li dai non possiamo vederci più, perché non c’è futuro tra di noi…”. Di fronte a questa minaccia e alla paura della mia paziente di rimanere sola, magari dopo aver sborsato tanti soldi, lei cedeva e gliene dava altri e così è arrivata, in circa 6 mesi, a dargli circa 50 mila euro».”

Leggi l’interna intervistahttp://www.leggo.it/news/italia/rosboch_donne_raggirate_psicologo-1602185.html

La psicologia di Whatsapp e la cultura del sospetto

In questi giorni Whatsapp, la notissima app che permette di scambiarsi messaggi testuali e vocali, foto e video, ha introdotto un nuovo strumento che sta facendo molto discutere. Si tratta della doppia spunta blu. Fino a questo momento la persona che inviava un messaggio tramite Whatsapp poteva verificare se il messaggio era stato inviato correttamente (una spunta grigia) e se era stato ricevuto dal destinatario (doppia spunta grigia). Adesso in pratica è possibile sapere anche se il messaggio è stato letto e, attraverso le info aggiuntive, esattamente a che ora.

In rete le polemiche, tra parodie e tragedie, girano tutte intorno al fatto che adesso non sarà più possibile dire al proprio interlocutore che il messaggio non è stato letto. Quante amicizie e relazioni si interromperanno per colpa di questo nuovo strumento! Mi sono chiesto però quale fosse la “fantasia” alla base degli sviluppatori di Whatsapp che evidentemente hanno sentito l’esigenza di aggiungere questo nuovo strumento; ma, soprattutto, mi sono chiesto se questo in realtà, più o meno consapevolmente, non fosse il desiderio di milioni di persone che quotidianamente utilizzano questo sistema di messaggistica.

Ricapitolando: io mando un messaggio e con la prima spunta grigia mi dice che il messaggio è stato consegnato al server di Whatsapp, la seconda spunta grigia mi dice che è stato consegnato al destinatario, cioè sta nel suo cellulare. Questi due aspetti tutto sommato potrebbero essermi veramente utili, perché mi segnalano che non ci sono interferenze e i dispositivi funzionano correttamente, ma perché mi serve anche sapere se il mio messaggio è stato effettivamente letto? Se devo dare un’informazione importante ed ho la necessità che il mio interlocutore lo sappia forse è meglio chiamarlo, oppure se decido di utilizzare la messaggistica gratuita gli chiedo espressamente di confermarmi che l’ha ricevuto. Ma se scrivo “ti amo” alla mia compagna, perché ho necessità di sapere se e a che ora ha letto il messaggio? E se mi compare la doppia spunta blu e non mi risponde cosa vuol dire? Da quello che si legge in rete sembrerebbe che in questo caso il rischio potrebbe essere quello di attivare il vissuto di sospetto: “non sa cosa rispondere!”. Ma perché di fronte ad un semplice desiderio di esprimere un sentimento si attiva contemporaneamente la paura e il sospetto?

A mio avviso questo avviene perché:

prima ancora del vissuto di sospetto, quando noi mandiamo un messaggio, attiviamo anche un altro vissuto, ovvero quello della “pretesa”, che può essere riassunto così: “se io compio un’azione, non sono solo mosso dal fatto che mi piace fare qualcosa per l’altro e basta, ma sono spinto dall’idea che l’altro mi debba ricambiare, pretendo una risposta precisa dall’altro e se non arriva vado in ansia (Renzo Carli definisce questi vissuti con il termine di: “neo-emozioni”).

Quindi la doppia spunta blu facilita questa cultura della pretesa e del sospetto: quando invio un messaggio se fossi spinto dal solo desiderio di esprimere un sentimento non avrei la necessità di sapere se e quando lo legge il mio interlocutore, se invece sono spinto dalla pretesa e dal sospetto allora sì, devo sapere, perché dalla sua risposta dipende il mio umore.

psicologia-whatsapp

Mettendoci invece nei panni di chi riceve il messaggio va ancora peggio!

Mi arriva un messaggio con scritto “ti amo” che faccio? Potrei semplicemente pensare “che bello”, punto. Invece NO, mi sento obbligato a rispondere, ormai la mia compagna sa che l’ho letto e se non rispondo alimento la cultura del sospetto. Quindi nella maggior parte delle volte rispondo, ma non è una risposta spontanea, libera, diventa la risposta alla implicita pretesa dell’altro. Non solo, ma cosa rispondo? Se invio una semplice faccina mi si recriminerà che ho risposto banalmente ad un sentimento ALTO, se invece non ho voglia di rispondere allora la recriminazione si fa più seria: “non mi ami quanto ti amo io!” o peggio “hai un altra!”

Il problema non si pone solo tra relazioni intime, ma anche nella amicizie.

Mi arriva un messaggio, forse so da parte di chi, non lo apro perché ho paura di dare al mittente l’informazione che si aspetta, ovvero che l’ho letto, e se non ho una risposta pronta da dare che si fa? Ormai sa che l’ho letto, sta aspettando la mia risposta. Ho l’ansia…

Mando un messaggio, ho la conferma che è stato ricevuto, non mi risponde, penso che non sono stato abbastanza simpatico da scrivere cose degne di una risposta, o peggio sto infastidendo l’altro.

Potrei continuare così all’infinito con tutte le varianti possibili, però il significato di ciò che sto scrivendo è sempre lo stesso:

rischiamo di vivere nella cultura del sospetto dove in ogni istante abbiamo bisogno di conferme che non fanno altro che alimentare altri sospetti e quindi altre richieste di conferma.

Forse il modo migliore per uscire dall’impasse è provare a rispondere come segue:

whatsapp-psicologia-2

Aspetto i vostri commenti e se non arrivano penserò che questo post non sia abbastanza interessante 🙂 Diciamo così: se vi va di commentare potreste anche indicare situazioni che potrebbero creare altri disagi o, magari, anche qualche buon vantaggio della ormai cara doppia spunta blu di Whatsapp…

Segnalo il testo citato nel post: Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia (2002) L’analisi emozionale del testo. FrancoAngeli, Roma

Recensione psicologica: tutta colpa di Freud

“Tutta Colpa di Freud” – Regia di Paolo Genovese (2014)

Inizio facendo due premesse. La prima è che il film mi è piaciuto molto, è ben fatto, la storia è divertente, i personaggi sono abbastanza credibili e gli attori bravi.
La seconda premessa è che un film ha una sua struttura narrativa e non ha l’obbligo di essere aderente alla realtà, nemmeno quando racconta di una particolare professione. Questo per dire che non ho la pretesa di affermare che uno psicoterapeuta in un film deve essere verosimile alla realtà, quanto vedere le incoerenze come il frutto di una immagine sociale del nostro lavoro, cercando di evidenziare quali elementi vengono amplificati e quali invece sono messi in secondo piano o assenti.

La prima cosa che mi ha colpito nel film è lo studio di Francesco (l’analista) nel quale è presente, molto in evidenza, un mobile interamente dedicato allo schedario dei pazienti. Sarebbe più indicato in una biblioteca oppure nello studio di un notaio o avvocato piuttosto che nello studio di uno psicoanalista. Immaginate che in un solo cassetto potrebbero esserci benissimo centinaia di schede, in tutti quei cassetti potremmo arrivare a parecchie miglia, mi sono chiesto a cosa servissero (certamente c’è una scena in cui la figlia, Emma, sbircia nello schedario per rintracciare un certo nome) però questo non giustificherebbe la presenza di questo enorme mobile. Ovviamente ho pensato a quale fosse la fantasia del regista, o dello scenografo, nell’immaginare uno studio di psicoterapia con tante schede. Non ho una risposta e la lascio ai vostri commenti (che potete scrivere in fondo alla pagina).

Rispetto alla storia ho trovato molto divertente e veritiera l’idea che un padre giochi a fare l’analista anche con le proprie figlie. È chiaro che lo fa all’interno di una “finzione”, dove emerge il desiderio sia delle figlie che dello stesso padre ad entrare in una relazione profonda, e la scusa del “lettino” diviene un ottimo mezzo per riuscirci. Anche quando improvvisa una lezione sulle diverse tipologie di uomini, lasciando solo al 5% quelli da incontrare e magari sposare! Penso che nell’immaginario collettivo gli psicoanalisti, e in genere gli psicologi, siano ritenuti capaci, più di altri, di fronteggiare le crisi dei figli, spesso si pensa che hanno dei poteri quasi misteriosi nel comprendere l’altro. Purtroppo, io direi per fortuna, le cose non stanno così, anche perché la vera comprensione non passa dalla teoria ma dalla relazione che si instaura tra le persone. Questo aspetto nel film è ben rappresentato.

Un po’ meno chiaro è il rapporto di Francesco con il fidanzato della figlia 18enne, Emma, interpretato da Alessandro Gassman, in crisi con la moglie, con il quale inizia una relazione analitica. Anche in questo caso potrebbe essere considerato un gioco, nel quale il padre esperto fa capire che una relazione tra un 50enne e una 18enne in genere funziona poco. Quello però che non convince è il fatto che Francesco, in più di una occasione, dice che Alessandro è in analisi da lui (addirittura lo ha schedato come paziente). Forse sarebbe stato più opportuno proseguire sulla linea che si sono incontrati su richiesta/costrizione di Francesco perché vuole proteggere la figlia, Emma, a non farsi troppo del male. Tutto per dire che avviare un percorso psicoterapeutico è un processo molto serio che non può essere confuso con le relazioni e gli intrecci privati (questo lo dico per i non addetti ai lavori!)

Sempre all’interno del processo psicoterapeutico potrei dire che Francesco è un analista abbastanza anomalo tecnicamente, intanto perché utilizza una lavagna e si presuppone che la possa utilizzare anche con i pazienti (Freud non lo avrebbe mai fatto!), ma soprattutto per la tecnica di conduzione dell’unico paziente, Alessandro appunto, che vediamo in terapia. Infatti gli propone una innovativa tecnica americana che consiste nel ripercorrere con la moglie, in una settimana, i momenti salienti del loro rapporto per comprendere emotivamente che non prova più nulla per lei e arrivare così alla separazione vera e propria (anche questo Freud e i suoi discendenti non lo avrebbero mai fatto), anche se la tecnica, devo dire, è interessante, forse anche da sperimentare! Mi sono chiesto perché in genere nei film si rappresenta un analista e sempre con il lettino, anche quando magari utilizza tecniche molto lontane dalla psicoanalisi. Penso che questo riguardi uno stereotipo, che viene da lontano, fin dai primi film. Probabilmente perché la psicoanalisi è il modello di cura psichica più conosciuto e quindi più facilmente identificabile. Nel caso del film in questione poi non poteva che essere così visto che Freud sta proprio nel titolo!

Un ulteriore aspetto, che viceversa ha una sua coerenza, è il fatto che Francesco come analista sembra avere molto tempo libero: spesso le figlie lo vanno a trovare senza avvisare, può decidere di prolungare la pausa pranzo per stare ancora un po’ con la moglie di Alessandro, Claudia, di cui è segretamente innamorato, ecc. È evidente che il film è esclusivamente centrato sulle difficoltà relazionali delle tre figlie piuttosto che sui pazienti, come avviene, invece, in alcuni film di Nanni Moretti, ad esempio ne “La stanza del figlio” dove molte scene ruotano sulla crisi dell’analista dopo la morte del figlio e sulla sua relazione con i pazienti. Direi, come affermano i Gabbard, che in questo caso la figura dell’analista è un pretesto per raccontare una storia di tutt’altro genere, è il motore sul quale si può collegare l’intero intreccio narrativo. Forse un padre ingegnere o avvocato sarebbe stato meno credibile, non so lo, anche in questo caso lascio a voi la parola attraverso i vostri commenti.

Nel film sono rappresentate anche le storie delle altre due figlie: Sara, omosessuale, che decide di diventare etero, per fortuna con scarsi risultati e Marta, più intellettuale, forse anche il personaggio più stereotipato, che deve necessariamente innamorarsi del diverso: giocolieri, scrittori e ladri di libri…
Comunque, in generale, credo che la psicologia, non solo la psicoanalisi, in questo film ne esca abbastanza bene. La figura del padre-analista è coerente, divertente e anche funzionale alle figlie, le quali hanno certamente qualche problema con la separazione/individuazione da un padre quasi perfetto e una madre assente, ma anche un grande desiderio di capire e vivere le relazioni.

Quest’aspetto è, a mio avviso, anche coerente con il titolo del film: “Tutta colpa di Freud” e con la canzone di Daniele Silvestri che fa da “title-track” alla colonna sonora. Sembra che sia l’inconscio a dominare le nostre relazioni nel bene e nel male. Del resto l’insegnamento di Freud è proprio questo: siamo “condannati” a vivere le nostre relazioni e queste spesso sono anche la fonte di tutte le nostre sofferenze; ma, aggiungerei io, anche la fonte della nostra libertà (questo Freud forse non lo direbbe!)

Post Scriptum
Siccome a me interessa molto anche informare sui temi della psicologia/psicoterapia aggiungo, a questa recensione psicologica, qualche dettaglio tecnico, spero di qualche utilità. Nel film si parla spesso di analisi e non di psicoterapia, provo a fare un po’ di chiarezza.

Lo psicologo è una persona laureata in psicologia che per esercitare la professione deve aver conseguito l’abilitazione mediante l’Esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito Albo Professionale.
Per svolgere un lavoro di psicoterapia lo psicologo deve frequentare (dopo l’iscrizione all’Albo) una scuola di specializzazione della durata di 4 anni alla fine della quale ottiene il diploma di psicoterapeuta.
Quando si parla di “analista” e di “analisi”, si intende invece uno psicologo (nel passato, prima della nascita della facoltà di Psicologia, anche medico, oppure laureato in filosofia, lettere, sociologia ecc.) che ha frequentato una scuola di specializzazione dedicata esclusivamente al modello psicoanalitico, la più importante e conosciuta in Italia è la S.P.I. (Società Psicoanalitica Italiana). Questo per dire che un analista è sempre uno psicoterapeuta che però desidera connotarsi nello specifico come psicoanalista e quindi preferisce chiamare il suo lavoro clinico “analisi”.

Spesso in rete, a proposito della differenza tra “analisi” e “psicoterapia”, ho trovato frasi come questa: “lo psicoanalista fa l’analisi della tua mente, lo psicoterapeuta cura le patologie della mente”, oppure: “il primo vede che cos’hai, il secondo dovrebbe curare”, o, ancora: “L’analista, analizza il paziente come dice la parola stessa. Il terapeuta invece, ha il diritto di prescrivere farmaci, fare interventi ecc.”

Diciamo che queste frasi non corrispondono al vero. Dal punto di vista formale “analisi” e “psicoterapia” sono la stessa cosa, dal punto di vista teorico differiscono nel modello di trattamento.

Nel post ho citato un testo, scrivo qui il riferimento bibliografico completo:
Glen O. e Krin Gabbard (1999) Cinema e psichiatria, Raffaello Cortina, Milano.